L’arte contemporanea regala le impressioni e i sentimenti più svariati. Ma una sola sensazione, spesso in agguato, è terribilmente frustrante. È l’esclusione. Essere e sentirsi esclusi è drammatico. Perché mette in una condizione di minoranza, di non conoscenza di strumenti o regole del gioco oltre che di assoluta impotenza. E non c’è quasi mai nulla da fare, se non rifiutare e respingere. Specie di fronte ad un’opera d’arte. Andreas Golinski lavora duro e gioca pesante. Ma non c’è nulla di ludico, né soprattutto di esclusivo, nella sua ricerca artistica. Ogni sua nuova opera è profondamente ambigua. Attrae, attira e quasi seduce da una parte, elude, allontana e respinge persino duramente dall’altra. A Ferrara, tutto quel che accade è seminascosto e inaccessibile. Non sapremo mai cosa c’è davvero dietro quei muri o dentro quelle stanze chiuse. Né se, in fondo, siano solo dei volumi vuoti. Come sempre nel suo lavoro, tutto cambia da un’opera all’altra. Restano solo una luce cruda e fioca e la presenza vagamente inquietante del suono. Ma le regole sono le stesse: siamo soli e sperduti. E non abbiamo quasi appigli. Si tratta di sforzarsi. E, come in una scalata, di affidarsi al corpo, alla sua sensibilità, alla vista e all’udito, prima di cedere alla riflessione a tutti i costi. Non c’è necessariamente nulla da capire infatti. Si tratta solo di seguire l’istinto dei sensi, mettendo in scacco l’apparente esclusione con le sensazioni, prendendosi perfino il rischio di abbandonarsi alla paura. E qualcosa, in effetti, filtra. Unici indizi: la luce e il suono. E uno spazio anomalo, tradito e traditore, insensato. Non c’è nulla da vedere. Solo da essere. E, una volta acquisita la consapevolezza di non essere esclusi da nulla ma, al contrario, di trovarsi pienamente inclusi all’interno di un ambiente, lasciarsi finalmente andare. E far scorrere liberamente le ipotesi, il pensiero, la fantasia, le suggestioni. Vale tutto.
E le evidenze prima di tutto. Quindi, lo spazio fisico costretto, l’apparente insensatezza, la persistenza di un suono ossessivo e penetrante, una luce anomala ed artificiale. Dove ci troviamo allora? Siamo sempre al piano terra di un edificio espositivo in un parco oppure Andreas Golinski ci ha portato altrove? Probabilmente siamo esattamente dove desidera. E nemmeno lui sa forse bene dove. È stato un lungo cammino verso il basso. Ma sappiamo bene di conoscere quelle condizioni percettive dell’ambiente, dei suoi suoni e delle sue luci. O, quantomeno, le possiamo riconoscere.
Andreas Golinski viene da Essen, Germania, in pieno bacino della Ruhr. Industria pesante prima, suo faticoso e struggente smantellamento poi. A volte, raramente, riconversione. Durezza, pesantezza, sia sociale sia economica. Andreas si è formato negli anni della fine di quel ciclo epocale. Rinunciamo qui a scavare a fondo nella sua biografia. Immaginiamo però che la suggestione di luoghi e soprattutto di architetture abitate da fantasmi la cui memoria lentamente ma inesorabilmente si scioglie nella terra, abbia un suo peso specifico da cui sia davvero difficile prescindere.
Quanto un’opera, un percorso di ricerca possono illuminare, riraccontare o ritrarre un territorio? Come si spostano e si costruiscono i clichè di un territorio? Come un artista ne riverbera l’immaginario? E, al contrario, quanto di un territorio penetra nell’immaginario di un artista?
Lasciamo aperte queste domande. Riguardano tutti, e non solo un artista in particolare. Non siamo rimasti esclusi, almeno questa volta. È stato un lungo cammino. Verso il basso. In profondità però. E non siamo affatto all’inferno. Anche se – dobbiamo riconoscerglielo – Andreas Golinski è diabolico.
Andrea Lissoni